ROCCA Lodovico

1895 - 1986 Compositore italiano

Compositore italiano nato a Torino il 29 novembre 1895 ed ivi deceduto il 24 giugno 1986.
Studiò a Torino e a Milano, dove si perfezionò in composizione con G. Orefice.
Dal 1940 al 1966 diresse il Conservatorio “G. Verdi” di Torino, che non volle lasciare quando, nel 1950, gli venne offerto di dirigere quello di Roma.
Membro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dal 1936, ottenne un premio per la musica dall’Accademia d’Italia, il Premio nazionale di operosità nel 1960, e la Medaglia d’oro statale dei benemeriti della scuola, dell’arte e della cultura nel 1961. Vinse inoltre vari premi nazionali e internazionali per alcune composizioni teatrali ed orchestrali.
In un ormai lontano saggio R. Mariani individuò acutamente la nota specifica dell’arte di Rocca definendola, in sostanza, come evocazione applicata a soggetti di tipo storico-religioso la cui atmosfera viene espressa dal musicista con piena sicurezza di mano e profondità di pensiero.
Certo, se l’indagine sulla cifra espressiva di Rocca risulta, tutto sommato, abbastanza agevole, è per contro impresa difficile il suo inquadramento storico-estetico da nessuno finora affrontato con decisione.
Va detto, a questo proposito, che Rocca è artista tra i più autenticamente originali di tutto il Novecento padrone d’un lessico personalissimo elaborato, negli anni di tirocinio, attraverso cospicue frequentazioni di lettura e d’ascolto che rimbalzarono in pagine poi distrutte (o in piccola parte riplasmate e utilizzate) e destinate ad accogliere la piena degli echi, da Wagner a Debussy, da Musorgskij a R. Strauss.
L’esordio ufficiale di Rocca, tuttavia, avviene con due brani sinfonici “Chiaroscuri” e “Dittico” già scevri di tributi troppo evidenti ed articolati secondo quell’alternarsi di momenti sereni ed angosciosi, di episodi grotteschi e tragici tipico della musica di Rocca e da lui realizzato impiegando con spavalda sicurezza di mano ora un moralismo arcaizzante, ora armonie raffinatamente screziate, ora aspre sovrapposizioni politonali.
Musica che si impossessa dei soggetti e dei testi, che li riplasma con foga trascinante, musica che anela al teatro cui Rocca si accostò ventiquattrenne con “La morte di Frine” subito seguita da “In terra di leggenda”; il delicato crepuscolarismo della prima, sottolineato dalla squisita poeticità dell’orchestra, e la ferrigna ambientazione medievale della seconda (in cui è notevole il taglio a tutto tondo dei personaggi, ben lontano dal manierismo ad esempio si Montemazzi, Refice e di Zandonai) dovettero attendere alquanto per vedere condiviso dal pubblico il positivo verdetto di concorsi internazionali.
Negli anni che precedono “Il Dibuk” Rocca approfondisce la propria poetica elaborando, oltre al denso, trascinante sinfonismo de “La cella azzurra”, dove la suggestione evocativa oltrepassa di gran lunga il programma, e di “Interludio epico”, una nutrita serie di liriche che toccano gradi di assoluta eccellenza soprattutto nei richiami al mondo greco (vedi le “Melopee” ed i “Canti spenti”) ed all’ambiente francescano (“Sonetti”, le attonite “Tre salmodie” ed i successivi, squisiti “Schizzi” con piccola orchestra).
Tale annosa maturazione si concretizza infine nella totale riuscita de “Il Dibuk” che stabilì definitivamente la fama di Rocca; opera tra le più importanti del Novecento per originalità di soggetto (la reincarnazione di un’anima in corpo vivente) e potenza di realizzazione, “Il Dibuk” mostra appieno, nel fantasmagorico alternarsi di atmosfere superbamente caratterizzate, le peculiari qualità di Rocca; qualità che si ritrovano nei successivi lavori per il piccoli complessi (“Salmodia” e “Proverbi di Salomone” che riecheggiano colori dibukiani, la vertiginosa “Storiella” ed il grottesco “Biribù, occhi di rana) ed in “Monte Ivnor”, dramma dei piccoli popoli oppressi che supera forse “Il Dibuk” per l’incisiva resa dei personaggi e che, al pari di questa, conobbe assurdi veti politici.
Nel secondo dopoguerra Rocca riprende la propria attività realizzando, dapprima, un soggetto da anni amorosamente coltivato: “L’uragano”; il dramma di Ostrovskij, cupo, esasperato, intriso di angoscioso pessimismo ha suggerito a Rocca pagine fra le più efficaci di tutta la sua produzione; in particolare la disperata figura di Caterina è trattata con accorato lirismo, mentre il resto dei personaggi è dipinto con accenni ora grotteschi ora lugubri che ne sottolineano le caratteristiche negative.
Infine giungono le “Antiche iscrizioni”, definite, ad ennesima conferma dell’estetica di Rocca, come evocazioni, in questa bella cantata, Rocca ritorna ai prediletti testi greci intonandone una serie atta a sollecitare i propri più congeniali moduli espressivi: con esemplare concisione Rocca alterna episodi di carattere ora grottesco, ora patetico ed eroico, ricavandone una sequenza d’immagini allineate in una sorta di fascinoso bassorilievo sonoro.

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