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Lettere 1940-1962

L'editore Einaudi, nel 2002, in collaborazione con la Fondazione Ferrero di Alba, pubblica Lettere 1940-1962, a cura di Luca Bufano.
Nella raccolta prevale la corrispondenza con Einaudi, Garzanti ed i responsabili culturali delle Case Editrici; ma, nell'ambiente degli intellettuali, Fenoglio riconosce soltanto in Italo Calvino un autentico amico, al quale si rivolge con fiducia e stima, rendendolo partecipe del suo percorso letterario.
Colpisce la svagata ironia delle lettere a Giovanni Drago e Piercesare Bertolino, che contrasta con la nostalgia della trascorsa adolescenza e la consapevolezza delle pesanti responsabilità dell'età matura.

L'11 Febbraio del 1960, Beppe Fenoglio confida alla scrittrice Gina Lagorio i suoi gravi problemi di salute.
Il libro comprende anche i biglietti scritti all'Ospedale Molinette di Torino fra il 15 ed il 17 Febbraio 1963. Lo scrittore, negli ultimi giorni di vita, si rivolge ai parenti ed agli amici, con accettazione consapevole della sofferenza e della fine.
Scrive alla figlia Margherita:

Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata e non devi pensare che ti abbia lasciata.
Tuo Papà [1].

Luca Bufano conclude il libro con la testimonianza di Pietro Chiodi, dedicata a "Fenoglio scrittore civile", già apparsa ne La cultura del gennaio 1965.
Il filosofo sottolinea il coraggio e la rara sensibilità che traspaiono dal biglietto d'addio a Margherita: "Noi tutti che gli fummo vicini possiamo testimoniare che non ebbe mai un attimo né di scoramento né di rivolta... Beppe Fenoglio era proprio questo impasto di estrema tenerezza e di rigorosa asprezza" [2].

Dall'epistolario, anche se incompleto, emerge la personalità dell'Autore, che, come afferma l'amico Guido Manera, era consapevole "che la sua certezza di poter diventare un autentico scrittore reggeva sulla sua capacità di concentrazione, di scavarsi dentro, che era anche uno scavare nelle cose. Tremenda parola 'concentrazione' che, per lui, voleva anche dire non solo essere fedele a una vocazione (che lui chiamava volontà), ma anche sapere di doverne pagare il prezzo... C'era in lui una latente coscienza della fatalità che portava dentro... era un uomo, figura dell'universale uomo" [3].

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